u gallu granne

trecentonovantesima luna sull’Oceano

Pubblicato il 1 Giugno 2011

La defezione è stata improvvisa e all’ultimo, perciò mi sono trovato a partire disperatamente solo col sole basso basso sul Conero per andarmi a invecchiare lontano da tutto e tutti cifra tonda sull’Oceano. Ed essendo, appunto, solo con me in un paese la cui lingua ignoravo potesse essere così inattesa e con una lingua in bocca che ignoravo di gestire così male, oltre le mille foto a farmi compagnia tutte quelle cose – dettagli, alla fine, ma sono quelli che fanno un discorso quando li avvicini tutti – che uno avrebbe detto a un altro lì vicino non ho potuto dirle.
Ma le ho pensate. Le ho sentite, mi hanno attraversato. E consegnandole a un anonimo server – assieme a una selezione di quella terra ai confini del vecchio continente – non riempiranno il vuoto che, alla lunga, in sette giorni da solo ho sentito tutto e più di quanto pensassi – lo capisci da qui quanto 390 lune dicano la loro – ma almeno l’effetto terapeutico catartico farà il resto del lavoro che affidando tanto al vento oceanico ho lasciato a metà.
Così l’oblio, non godendo io di testimoni, non si risucchierà le sensazioni di quelle rocce tra Atlantico e Europa.

Quindi il volo dalla penisola a Porto attraverso Alpi e Pirenei, le compaesane transappenniniche domicilate a Porto cui ancora sono grato per quelle dritte che sul web – e ho cercato tanto e bene – non trovi, i trentaeppassa gradi al sole e sentire fresco, i prezzi ridicoli di ogni cosa, l’italiano come ultima spiaggia con i verbi all’infinito – fallita ogni altra lingua, l’inglese per prima la spagnola per ultima – e il resto vedi che lo fanno per magia le radici comuni e percepisci il bello di essere latini in paesi latini, l’enorme volta dei sei ponti e le mie vertigini al solo passarci sotto e quegli adolescenti pazzi che si tuffano da lassù, i bambini nudi in bicicletta e sugli scalini del centro storico arrampicato sul suo abbandono, il delirio barocco degli interni, l’uomo col mantello Sandeman e Muorinho su pareti e ponteggi, i pixação che non mi aspettavo ma ci speravo, tanto troppo italiano nell’aria il che spiega la crisi meglio del Sole24Ore, WiFi Porto Digital dal segnale onnipresente e ovunque mai dalla potenza più intensa di “scarso”, tutto quell’azulejo da mettersi gli occhiali, zero ressa zero folla zero attese, l’esplosione della città per la squadra di casa campione nazionale e i peruviani in strada a vendere le vuvuzelas coi colori patri, i gabbiani – molesti a ogni altezza – veri padroni di Porto.

Il caffè buono come il nostro – Segafredo Zanetti su un’insegna su due -, i treni che partono un minuto prima dell’orario, finalmente l’OCEANO e il suo respiro urlato assordante e la forza delle onde e l’imponenza dell’elemento acqua e quell’orizzonte laggiù lontanissimo che ci pensi quanto per secoli l’hanno fissato convinti che non ci fosse nulla oltre quei due blu che si toccavano dove lo sguardo moriva, l’impatto psicologico di sapere che a qualche decina di miglia marine non c’è Zara, scoprire quanto mi piace dire “hasta luego”, le portoghesi che sarebbero anche belle non vestissero – inconsapevolmente, temo – così vintage, i frangiflutti di cui non conoscono l’esistenza – e manco di ombrelloni, chalet e via via tutta la flora rivierasca che deturpa l’Adriatico -, quei crossaint da paura detto da uno che non ingoia dolci di nessun ordine e grado, i pickup Ford gialli dei baywatch, culi che hanno colpito addirittura me detto en passant, throwup se possibile più brutti dei nostri, io che chiedo incredulo ogni volta tre voltre il prezzo di tutto.

Il fuso orario che mi logga all’alba, il vecchietto della pensão col gestionale clienti a pizzini, scoprire che non mi piace il vinho Porto, i cannoni lungo la foce indice che i Pirati apprezzavano la zona, l’autobus che calpesta cordoli e marciapiedi come niente fosse, l’assenza di cosa c’ho messo tre giorni a capirlo: forze dell’ordine, non so nemmeno di che colore abbiano la divisa, ma effettivamente solo in Italia abbiamo tanta di quella paura da volerci vedere attorniati da tutori della tranqueillità che siamo i primi ad auto negarci, blocchi FABRIANO nelle vetrine delle cartolerie e sotto braccio agli studenti e per un attimo mi sento quasi fiero della mia provenienza – poi passa subito, per fortuna -, l’assenza di scarpe coi tacchi – logica, con quelle salite e quei marciapiedi devastanti – che tanto fanno soffrire il mio feticismo, gli autoctoni in fila per farsi le foto davanti alla Ferrari del truzzo di turno in Ribeira. Targata RSM, oltretutto.

Lisbona si diverte Coimbra canta Braga prega e Porto lavora, Josè che no le gusta el Brazil e gira la penisola iberica como camarero e penso sia pazzo, il cervello che si scollega da tutto quello per cui gira a duemila km a oriente e con una semplicità che non l’avresti mai detto spegne quella partizione e anche volendo – con la giusta dose di masochismo per non alienarsi – accedervi sembra incontri solo oggetti sconosciuti, ritrovare una stazione Tiburtina in ogni capitale del mondo.
Lisboa, homeless che dormono in mezzo al traffico, l’intensità di mille cucine che ti stordisce, bambini indiani ciechi a chiedere l’elemosina come in Slumdog Millionaire, pusher a ogni lato e angolo e perfino dentro i ristoranti che alla fine nemmeno ci provano più a venderti gli occhiali, A paisagem não tem dono, io che corro a far da fotografo al gruppo di Tor de schiavi irresistibilmente richiamato da quegli Aoh, eddajje che da troppo non sento, posteggiatori abusivi marocchini e tassisti su Mercedes anni Ottanta cogli spoiler, temperature che – a me! – fanno cercare l’ombra, il Rossio occupato dall’acampada come a Puerta del Sol e mi chiedo se e quando anche Piazza del Popolo – Roma, claro – avrà altrettanta voce, grappa portughesa un poco forte e io “soy italiano” ma tremo quando m’accorgo che la Nardini in confronto è Zymil.

Contrariamente alle previsioni svegliarmi il trentesimo senza farmi viaggi tetri da paranoide monomaniaco, il numero di km a due cifre del ponte più lungo d’Europa – Vasco Da Gama – per il quale vomito solo a guardarlo da riva senza peraltro scorgere quella opposta, troppi odori che si combattono all’Alfama, il traffico impossibile del centro ma pochi clacson – nulla, rispetto a quelli di una città media italiana -, fingersi spagnoli per disperazione quando nei locali trovi italiani iPhone in mano a fotografare culi, brindare ai 30 con 330cl di Sagres, il senegalese Papi che fa il gommista agli Archi di Ancona e solo per questo se lo merita di venderti il braccialetto dall’altra parte del Continente.
Vertigini da dayafter nel cuarto effettivamente in discesa – la biglia me l’ha confermato -, il sole che si alza pallido e stanco dallo smisurato estuario a benedire la vuelta, la monosensorialità il limite di google earth quando fotografa i vecchi che giocano a carte sul molo, l’ansia del ritorno a ogni aereo che s’abbassa dietro Matosinhos e il pensiero di non lasciare quella terra che troppe volte ti sfiora.
E seguirlo, quel pensiero, come quasi ogni pensiero, sarebbe stato bello.



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