Galiza, secunda batida

O mar, o mar, nin outra cousa quero

Pubblicato il 26 Ottobre 2011

Se la lingua soffre un problema è che tiene que hablar, prima. Che nessuno ti corregge perché tutti ti capiscono, poi. Che tante sono le cose che hai da dire che te ne fotti di pronunciarle o comporle correttamente, alla fine. Ho totalizzato un dizionario callejero di una mezcla galego-castelana-latina francamente imbarazzante, ma sufficiente a sopravvivere piú dignitosamente che in Italia con gli autoctoni.
Gente tra l’altro di un’ospitalitá invidiabile, o forse ancora una volta il mio è solo culo. O è la faccia che ho avuto a esserlo.
Chiedere dime máis alla tipa del movimento 15m e trovarmi poche ore e troppe cañas dopo a distribuirli io quei flyer per la Rúa do Principe, e addirittura a spiegare ai vigueses in cosa consiste e perché mañana desde Praça d’Espanha hasta Porta do Sol e via dicendo, io, non dico non madrelingua ma a momenti nemmeno alfabetizzato.
Quindi quello che è stato il 15 ottobre nel mondo. Vigo ha risposto a pieni polmoni, 30mila a Porta do Sol. Ho visto arrivare la testa enorme del corteo che ancora montavamo l’impianto, che ancora avevamo in mano il dato di Praza de España 3 volte inferiore, che ancora non ci credevamo davanti alle dirette che solo Roma stava sputtanando tutto. Dal palco un tripudio di Basta e di speranze, un applauso initerrotto di due ore e colori facce gente messaggi a dare importanza a un qualcosa testimoniato per strada da un viguese su tre. Pensare che a Cangas, riva opposta della Ria, c’era la stessa manifestazione. Come a Pontevedra. Come in mille altre cittá del mondo. Mille cittá i cui quotidiani, il giorno dopo, parlavano di Roma.
Notte a Churruca, Licor café, i compagni dell’acampada de Vigo, castelano poi galego poi italiano poi settempedano poi tutti assieme con gente che a una certa sembrava facesse lo stesso, ma il come era l’ultimo dei problemi. Bella ciao è una bella cosa che nel nord sanno dell’Italia. Galiza ceive, abbracci e quintalate di baci – il primo, qua, a sinistra, elemento non di certo correggibile in una notte che troppe facce m’ha fatto cozzare – quando quello che deve entra a regime e d’altra parte siamo qua per questo. Ti dico che non so come dirtelo in una lingua che tu possa capire quello che m’hai fatto sentire con quello che con tutte quelle U e le lacrime agli occhi hai pronunciato da quel palco alle decine di migliaia di mani che si infrangevano tra loro per te, per noi, per domani. Forse nemmeno in italiano te lo saprei spiegare. Ti abbraccio solamente e spero che capisci. Se il non verbale non cambia a duemila chilometri, capisci.

De repente è una delle espressioni dal piú alto livello di piacere fisico linguistico nella pronuncia. Un godimento orale come pochi. De repente l’attacco di segno meno. L’aspettavo, ma a lo mejor non cosí presto da non vederlo partire e trovarmelo addosso a una distanza ormai inevitabile. Quando non puoi altro che ingoiare a occhi chiusi mentre lo skyline da est si fa azzurro poi blu nel fondo ora arancio ora porpora. Farlo implodere lí tra una costola e l’altra, non ne esci verticale altrimenti, per creare l’ennesima voragine in un giá tormentato campo minato che ad ogni passo devi ricordare se non vuoi rovinarci dentro. Il sentirsi solo sia di qua che di lá, senza nessuno a cui spiegarlo – nessuno che possa capirlo – che dopo anni appoggiati a se stessi fa tanto male ogni caduta quando uno di quei se stesso crolla. Quando elimini ogni retorica resta questo. Quando elimini ogni altro, pure.

I Cargo entrano velocemente vuoti nella Ria per uscirne appesantiti da murate di container, Citroën stoccate a centinaia nella lonxa scintillano al sole seppur salme per un mercato necrofago, il mio spagnolo che da quando sto qua è notevolmente peggiorato, da quando so che quello che dico non si dice come lo dico con conseguente freno a mano inamovibile tra lingua e encefalo.
Tu che m’hai prima svoltato il qui e ora, poi qualcosa di piú emotivamente meccanico che ancora non girava, con una dichiarazione di intenti che, nella tua leggerezza non so piú se naturale o artificiale né fino a che punto né m’interessa saperlo, non mi rende nulla di piú ai tuoi occhi di uno dei tanti che popolano il tuo ecosistema, ma è il tempo a costruire per quanto continuiamo a illuderci di farlo noi. E se domani uno di noi non sará piú uno di noi lo dirá la storia. Non noi. Né queste cime immense a picco sull’Oceano rosse al sole che cade nella ferita della terra più a sud del nord.
Dio ha appoggiato la mano in Galicia, stanco dopo aver creato il mondo, lasciandoci il segno delle dita.

M’hai detto che qua “è tutto verde” e non avresti dovuto dirlo. Perché non è tutto verde, ma non potevi saperlo. L’acqua della Ria cambia colore ogni quarto d’ora, come la sfera che le si chiude sopra, ma piú che specchiarsi – acqua e cielo – si rincorrono. Quattro arcobaleni assieme a dare il battito alle distanze. Assorbo ogni goccia d’acqua di questa nube che si sta frantumando da ore e ore nell’insenatura e consegno il tuo nome ai quattro metri di onda che mi si avvolgono contro. Voglio sentirne l’eco che rimbomba fino all’Adriatico.
Ci troviamo grosso modo sullo stesso parallelo. Non smetterá di piovere, perché è questa la Galicia de verdad. Sono un segno d’aria, non sará qui né altrove il mio posto. Perché il posto per me non è un dove ma un perché. L’italiano non rende, il castelano distingue tra ¿Por qué? e Porque. Il mio perché ormai è il secondo. Un pezzo dopo l’altro lo sto mettendo assieme. Il mare ti risponde sempre, quando hai bisogno. Figurati l’Oceano.

14-20ottobre2011_continua



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