Resistenza. 70 anni di lotta e libertà

Una pietra sugli Appennini parla di Resistenza, racconta una storia di eroismo, ricorda un inverno di lotta.

Pubblicato il 24 Aprile 2015

Bisogna salire a mille metri sul mare, allungare lo sguardo fino all’Adriatico a Est e sorpassare le vette degli Appennini a Ovest, oltre confine in Umbria, fin quasi a immaginarsi il blu profondo del Tirreno. Da quassù, raccontavano i vecchi, all’alba, in condizioni limpide su entrambe le sponde, comparivano le alture della Jugoslavia, vicine come si potessero toccare allungando le mani alla cieca davanti al cannocchiale. Bisogna respirarla, in Aprile, quest’aria pungente; questo profumo di montagna, queste altezze, questi spazi. Queste vertigini. Bisogna chiudere gli occhi, mordere la libertà che oggi è sensazione, ieri era conquista, l’altro ieri fu sogno.

valdiola

Vallata di Valdiola dal monte Argentaro

Una pietra racconta una storia, una storia di guerra, in cima a quel monte a forma di pagliaio, all’ombra del San Vicino. «Pozzàte djì unu pe’ mmonte» la maledizione della madre che sparpagliò i sette figli sui sette colli della città dalle sette porte. A queste altezze volano le aquile, su un cippo una storia di lotta e ideali e amore e sacrificio di 71 anni fa; la Linea Gotica ci mise qualche mese in più a cadere quando tra questi monti mancava ancora tutto, ma almeno la libertà era stata riconquistata. Quando le pallottole fischiarono davvero, già sul far dell’autunno di quel 1943, i più conobbero la paura guardando negli occhi la morte e tornarono a casa: essere ribelli tra i monti non è un pranzo di gala; con la puzza di sangue e polvere da sparo con Mario Depangher ne rimasero una trentina. Ma non si sciolsero più in quei nove mesi. Altrove non furono così fedeli.
Il fiume Musone sgorga qua sotto, pare di sentire il rumore dell’acqua che salta sopra i sassi, tra una folata di vento e l’altra. Guadagnare il valico scopre la vallata dell’Esino, l’unica verticale in tutta la regione a pettine, l’unica che risale contro corrente fino alla Gola della Rossa prima di allinearsi per guardare in faccia il mare. Alle spalle Valdiola, oltre, Roti e Braccano. Fabbriche e zone artigianali cadenti e impianti una volta produttivi oggi rottami uniscono a fondo valle Matelica a Cerreto D’Esi a Fabriano. Cemento che ha popolato l’unica area montana a vocazione metalmeccanica d’Italia, ridotta ormai a triste muto esempio della caducità delle eccezioni.
Penso a chi nascerà quest’anno, in questo 70° anniversario nazionale della Liberazione. Nacqui nel 1981, 70 anni prima era il 1911. Cosa so del 1911 senza chiederlo a Wikipedia? Lo chiedo. Quarto governo Giolitti. Varo del Titanic. Il Re d’Italia inaugura il Vittoriano. Guerra italo-turca. Mio figlio sentirà per la Liberazione dall’occupante tedesco quello che io sento per l’Annessione della Libia e del Dodecaneso al Regno d’Italia? Probabilmente sì. Probabilmente è anche giusto che sia così e altrettanto probabilmente non vivrà vent’anni senza una guerra a più o meno bassa intensità come è successo al padre, nascendo già nel pieno di un olocausto.

Attaccarono da ogni punto cardinale, quel 24 Marzo, ma a Ovest, a Roti, sentinelle non ve n’erano o dormivano. Quando si accorse il parroco, Don Enrico Pocognoni, che i tedeschi attraversavano il paese a notte fonda s’attaccò alle campane per dare l’allarme, avvertire i partigiani. Era già tardi. Il gesto non valse il sacrificio. Venne trucidato dai nazifascisti, mentre Roti, senza difesa, cadeva. La strada per Valdiola era spianata.
In questo incrocio di genti, terre e venti, qua dove le cime appenniniche oggi dividono quanto per anni dalle medesime è stato unito, rimangono i sentieri solcati da crepe e radici e i racconti. Ricordi pochi: l’ultimo ancora in vita del Battaglione Mario, Bruno Taborro, ci ha lasciato l’anno scorso. Vecchi del posto ancora in vita li conti su una mano. Vengo qua da Matelica e faccio 50 km in auto, mio nonno che a Valdiola nacque arrivava da questi sentieri che erano le autostrade di allora a Matelica in pochi chilometri a dorso di somaro. La velocità dei collegamenti ci ha solo reso schiavi degli orari, affamati mai sazi di ulteriore velocità. Là c’era una fonte, diceva Rino. Dietro una grotta, sopra una frana, laggiù un bosco, in fondo un burrone. Conosceva ogni metro di quella vallata a menadito, ma quando me la illustrava erano già rimasti solo rovi, proprietà private recintate, abbandono, rovine e cave. I suoi occhi non vedevano il presente come i miei non vedevano il passato. Troppo tardi io li ho aperti e troppo presto Rino li chiuse.
Avevano armi pesanti, mortai, perfino lanciafiamme, i duemila tedeschi inviati ad annientare i duecento della Resistenza sanseverinate. Ma soprattutto avevano guide locali espertissime del territorio e traditori al seguito, senza i quali non sarebbero giunti in cima all’Argentaro all’insaputa di Mario. «Che te pija ‘ncorbo, Lidio! ‘Nme ‘rcunùshi?» gridarono gli infami col fazzoletto rosso al collo alla vedetta Lidio Fiori quando, sbagliando la parola d’ordine, si videro sparare addosso. Non sarebbero dovuti essere in quel bosco, Lidio non aveva avuto indicazioni in merito. Disegnavano frecce rosse con la vernice sugli alberi per i tedeschi che sarebbero saliti di lì a poche ore.

Salvatore Valerio

Salvatore Valerio

Giunse notizia dell’attacco ad attacco in corso. Da Valdiola, a notte fonda, partirono le staffette, ma il comandante lo sapeva che uscirne vivi, stavolta, era difficile. Sganciò un contingente al comando di uno dei suoi uomini migliori, il capitano Salvatore Valerio, per difendere il punto debole a monte di Roti, il valico che si affacciava su Valdiola. Lo inviò al massacro, e probabilmente lo sapeva, ma arrestare l’avanzata nemica anche solo per qualche minuto poteva significare la salvezza del Battaglione. Valerio incontrò i nemici molto prima di quanto previsto, già oltre il passo, in campo aperto. Ottenere un successo militare, lì, in quel momento, era impossibile. Sopravvivere anche, ne erano tutti consapevoli. Il capitano rimandò indietro i suoi uomini, fece fuoco finché ebbe munizioni, scagliò l’arma inerte addosso al nemico, si lanciò a mani nude contro i tedeschi fin quando il corpo lo sostenne.

Una volta l’anno, a questa pietra, saliamo da Matelica, Gagliole, Sanseverino, Apiro. Salvatore Valerio venne crivellato di colpi qualche centinaio di metri più a valle, laggiù, dove termina la boscaglia e l’altopiano di prati e pascoli si apre al cielo. Ogni 25 Aprile, da tanti anni, attorno a questo cippo sventolano i medaglieri dell’ANPI, i tricolori, e fino a qualche anno fa un paio di sparute bandiere rosse. C’è sempre qualcuno, a queste manifestazioni, che sa cosa significhino le bandiere rosse, quale unica rivoluzione stiano a rappresentare e quale modello sociale ed economico propongano. Sa che queste bandiere sono state le sole, nella storia, a sconfiggere l’oppressione, l’opportunismo, l’ingiustizia. Ecco perché a queste manifestazioni c’è sempre chi chiede di toglierle.
C’era la neve, a Marzo del ’44, su queste cime. Poggio San Romualdo oggi lo individui dai ripetitori sopra i mille metri, allora era un campo di lancio alleato. Paracadutarono materiale, la notte precedente. «S’era ‘mpuntati e ‘n ze vulìa smòe», raccontava Bruno di quell’incubo dei somari inamovibili in due metri di neve. Carichi di casse, armi, divise inglesi, non c’era verso di farsi obbedire dagli animali; rientrarono dopo troppe ore con troppa fatica addosso dalla marcia col nemico alle porte e senza più forze per combattere.

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Gioacchino Panichelli, Lidio Fiori e Bruno Taborro al monumento in cima al monte Argentaro.

Il ponte sul Musone, a Chigiano, era stato fatto brillare. Sopra un colle, Gioacchino Panichelli aveva un mitragliatore pesante e teneva sotto controllo l’accesso alla vallata. Aveva chiuso la porta, nessuno sarebbe entrato o uscito da quella gola ai piedi del monte Canfaito. Gioacchì è morto un paio di mesi prima di Bruno, l’anno scorso. Sul terreno caddero corpi a decine. Arrivarono i rinforzi da Fabriano, Cingoli e Osimo. L’antiguerriglia tedesca iniziò la ritirata, Valdiola tornò in mano partigiana, Ugliano fu riconquistato. Gli alleati giunsero dal cielo a salvarci dodici ore più tardi, bombardando altrove.
Al ponte di Chigiano i vecchi che abitavano nei dintorni ricordano le urla dei ragazzi trucidati. Dicono che sembrava qualcuno stesse facendo la pista con un paio di mesi di ritardo. Chi non conosce la lavorazione della carne del maiale marchigiana o non ha mai assistito allo sgozzamento dei suini può non capire o non immaginare. Meglio per lui, dato che parliamo di diciottenni gambizzati, evirati, soffocati con la farina, gettati da un ponte, presi a sassate e lasciati agonizzanti a morire sulle rive del Musone. I tedeschi, testimonianze su testimonianze lo riportano, criminali di guerra o meno che fossero, sparavano un colpo in testa; i fascisti, italianissimi, fieri e indomiti, concepivano questi orrori. Il giorno dopo gli slavi volevano incendiare Sanseverino. Come dargli torto. La vendetta fu grossolana, sommaria; furono uccisi due fascisti più per rancori personali che per far giustizia, là dove parlare di giustizia, civile, marziale o divina che fosse, da mesi non aveva più senso.

Si ipotizzasse un prima e un dopo, nella Resistenza settempedana, sarebbe il 24 Marzo lo spartiacque. Dieci mesi sono lunghi, dall’8 Settembre i morti in quella lunga scia di sangue oltre cento, le storie da raccontare tante che anche solo sintetizzarle richiede qualcosa di più serio di un supporto deprecabile come questo.

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Partigiani del Battaglione Mario il 1° Luglio 1944 al chiostro di San Domenico a Sanseverino. Mario Depangher al centro, in piedi.

Il 26 Aprile pioveva. A Valdiola era rimasta una sola famiglia, la famiglia Falistocco. I tedeschi compirono un altro eccidio. Risparmiarono solo donne e bambini; avessero lasciato mano libera ai fascisti non si sarebbe salvato nessuno. Fu un anno bisestile, quel 1944. Per gli antichi foriero di mala sorte. Ma fu anche l’anno della Liberazione, per Sanseverino. Il I Luglio i partigiani scesero dai monti e la popolazione inondò la piazza. Si fece festa, quel sabato, fino al giorno dopo. Armando prese il mitra e sparò una raffica in aria. Era la prima volta che premeva il grilletto, lui tra i più giovani del Battaglione. I suoi colpi forarono la facciata del Municipio, ci rimase male, non toccò più un’arma in vita sua. Dal terrazzo del Palazzo municipale sventolavano le bandiere di tutti i Paesi che fornirono il loro contributo alla Resistenza, sulla torre di Castello fu issata bandiera rossa. Il CLN nominò Mario Depangher sindaco, primo sindaco di una Sanseverino libera.
Sarebbe bello finisse così. Sarebbe bello non conoscere il seguito.
Pensare a quel passato consapevole del presente mi tormenta da anni. Ormai le testimonianze dirette sono finite, gli esempi fanno parte della storia. Racconterò a mio figlio, che avrà tutta l’informazione del mondo a portata di indice ma spero non debba mai combattere né per né contro il sistema che presto o tardi lo strapperà alla verità, che più di 70 anni fa dei contadini appena maggiorenni presero le armi e si diedero alla macchia per quasi un anno e nessuno sapeva cosa succedesse a due chilometri dalle sue scarpe rotte. Se i suoi nonni sono nati e cresciuti in una terra libera e hanno consegnato ai suoi genitori un mondo migliore di quello che, mio malgrado e quanto non lo vorrei, io consegnerò a lui, è merito loro. Fosse dipeso da me, o il contesto non fosse stato così cieco, non dovremmo fingere, oggi, a 70 anni, di essere liberi nel dì di festa. E domani tornare carne da macello.
Tra le tante stronzate che mi raccontavano da bambino c’era quella che la storia serve a non ripetere gli errori del passato. Ma la storia si ripete sempre due volte. Nessuno aveva letto Marx dei tanti che tante stronzate mi hanno raccontato che per fortuna ho dimenticato. Ho solo paura, però, e non per me, che non ho più aspettative, che anche la seconda sia tragedia.



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