Macerie

Alle 7.40 è morto un pezzo di tutti noi, ancora vivi, attoniti e impotenti di fronte alle macerie delle nostre esistenze in una terra ferita e finita.

Pubblicato il 3 Novembre 2016

Oggi siamo vivi. Siamo vivi, forse per miracolo, e sappiamo quanto sia distruttiva una magnitudo 6.5 Richter. Sappiamo quanto sia più distruttiva di un terremoto 5.9 che tutti credevano definitivo. Siamo vivi ma un pezzo di noi è morto per sempre.

Perché non ti aspetti, dopo una scossa di 5.4 che credi non abbia repliche tanto sembrava forte, e una di 5.9 di fronte alla quale non hai nemmeno più la forza di piangere per la distruzione, che possa succederne una terza così lunga, così profonda, così infame quando alle 7.40 del mattino, nel letto, tra una carezza a tuo figlio e un bacio alla tua metà, dopo tre giorni di snervante assestamento ti senti quasi fuori pericolo.
Ma stavolta sotto quel trave che sarà difficile tornare ad oltrepassare, la paura ha ceduto il passo alla rabbia. Abbiamo imprecato contro questo sisma e maledetto quell’infinita scossa a metà della quale già sapevamo che da lì la nostra e nessun’altra vita sarebbero più state le stesse.

Perché una volta in strada, nel blackout e nel rimbalzarsi di numeri e di localizzazioni di epicentri, è inutile cercare il dato esatto: l’orizzonte impolverato, il cielo solcato da elicotteri, i lampeggianti, la gente stesa a terra, le urla e la certezza di chiunque che stavolta è una strage rimpiazzano l’INGV. I miei cari lontani, irraggiungibili, prossimi all’epicentro come me. L’aria fredda del mattino.
A Sud i Sibillini così limpidi, così netti, così feroci, così belli, così crudeli.

Perché l’esodo stavolta sarà inarginabile. Non abbiamo più nulla, i primi container arriveranno a Natale, quelli del 97 venduti per fare cassa e oggi sanno proporci solo di espatriare verso l’Adriatico. Ci deporteranno lungo la costa dove non aspettano altro, lidi così brutti che l’ingiustizia geofisica ha voluto così stabili. Torneremo sui monti per seppellire i nostri morti, raccontare ai figli di un passato che sembrerà loro un’epoca antica e versare qualche lacrima di nostalgia.
Oggi è la morte della mia terra. Sanseverino è finita, Camerino anche, Tolentino e Matelica non hanno più futuro, per Fabriano è il colpo di grazia, Visso e Castelsantangelo non esistono più. «Ricostruiremo tutto», scandisce Renzi. Che altro potrebbe dire. I nostri sindaci hanno la voce rotta dal pianto, spinta fuori tremante dalla rabbia, gli occhi spaccati da pianto veglia e polvere. I volontari si fanno forza per farci forza ma siamo soli e in ginocchio.

Alle 7.40 è morto un pezzo di me, è morto un pezzo di ognuno di noi, vivi e disperati su questa terra ferita. In venti secondi la scossa ha sbriciolato migliaia di esistenze lasciandoci in vita attoniti. Un istante dopo la natura ha ripreso il suo corso, imperturbabile, senza di noi. Continuo a tremare e non posso fare altro per questa terra che tutti vogliono abbandonare ma dalla quale nessuno vorrebbe scappare.

terremoto 2016 san severino marche

Questo terremoto che non se ne va. Vivere col mostro o morire orfani, difficile spiegarlo ai non appenninici che manca una terza via. Mi guardo intorno spaesato nel mio paese, non c’è un volto riconoscibile, non uno sguardo che sia rimasto lo stesso, non un’espressione illesa. Metà delle abitazioni è venuta giù, l’altra metà è inagibile. Dalle pareti bombardate squarci di esistenze, a terra i resti delle vite che scorrevano lente nella domenica mattina. Le zone rosse si accavallano, le transenne stritolano la città in briciole.

Il sole batte sui Sibillini, l’alba fredda illumina i profili morbidi, i colori autunnali. Questa la terra che ho scelto. Non ti voglio lasciare, terra mia. Scappavo da dieci anni, ero tornato per affidarti mio figlio.
Mi hai tradito, ma non riesco ancora a odiarti. O forse ti ho odiato troppo per riuscire a vivere senza di te.



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