Defacement

Una città bombardata. Macerie. Demolizioni. Il vuoto e il silenzio dell'abbandono.

Pubblicato il 29 Giugno 2017

In nove mesi nasce una vita. In questo scenario post bellico, tra vuoti e macerie, in nove mesi si è prodotta solo polvere. Sono questi, nove, i mesi dal boato di Visso, dall’urlo di Norcia e noi, allucinati come reduci con le pareti che si spostano e i solai che s’incrinano ancora negli occhi, iniziamo a farcene una ragione del fatto che nessuno muoverà mai un dito per questa terra. Intorno a me buche e rovina, calcinacci e macerie. Polvere, silenzio. Interi quartieri rasi al suolo, una città defacciata, sfregiata, deturpata, sfigurata.

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Serrande abbassate, gente migrata altrove. Dietro finestre dagli infissi diroccati, dai vetri sbriciolati nelle pareti squarciate, piante morte, orologi fermi alle 7.40, quadri inclinati, calendari immobilizzati a ottobre e armadi appoggiati sui letti, l’oscurità dell’abbandono. Uccelli morti nelle voliere, telescopi puntati al suolo. Sei su dieci non hanno più casa. Ruspe dalle lunghe braccia si mangiano decenni di vita tra le lacrime di chi vede pilastri fragili frantumarsi a terra.

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Ho visto gli occhi dei miei compaesani lungo la costa. Ci hanno voluto far credere per mesi che regnasse sulle spiagge adriatiche una tristezza infinita, un estraneamento degli sfollati nostalgici sofferenti lontano da casa. Sarà. Sono stato giù alla foce del Chienti, tante volte in questi mesi. Ho visto solo sorrisi, sguardi vivaci, gente rinata dalle rovine dei suoi monti respirando iodio. Non ci consola fingere il contrario: chi ci ha abbandonato per proporre ai più veloci un’alternativa migliore – la costa – ha vinto. Non è la prima e non sarà l’ultima volta.

Mi guardo intorno e incontro solo gente curva, dalle mie parti. Sguardi stanchi, andature barcollanti. Mi chiedo in quanti condividano i morsi allo stomaco che provo io di fronte a ogni demolizione, mi chiedo cosa pensa chi assiste alle ruspe che gli abbattono casa, con quale spirito i vigili del fuoco distruggano queste strutture precarie, se quegli occhi sconfitti torneranno mai a brillare. Non trovo la forza né la capacità per immaginare un domani, le spaventose newtown che si stanno attrezzando non saranno mai la mia città, quella nella quale sono cresciuto, e ciò che più mi dispiace sarà non poter raccontare a mio figlio “qui ho fatto questo, là ho fatto quello”, quando crescerà. Non poter condividere con lui la città che ho odiato tanto quanto ho pianto.

Non risorgeremo con qualche cantautore della generazione di mia madre in concerto dove dovremmo garantire la pace a una fauna che giustamente – molto più resiliente dell’uomo – se ne fotte delle nostre rovine. Nè con un’inutile strada pedemontana che unirà nulla a nulla dove nessuno passerà più se non perdendosi. Hanno lasciato l’esercito a guardia delle macerie, l’inflessibile Regione ha demolito ogni tentativo di sopravvivenza di chi ha tirato su due assi di legno per sé o i suoi animali quando c’erano due metri di neve – la voce della Regione era chiara già il 30 ottobre: venite al mare o addio – e in nove mesi né container né casette né altro si è ancora visto per chi ancora vive in disperati campi o camping o parcheggi.

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Il vuoto l’elemento che ho scoperto può aiutare a leggere uno sgomento così grande con la giusta ottica. Dov’erano palazzi ora c’è luce. Il vuoto si è fatto largo, le pareti abbattute hanno aperto varchi tra le vie delle zone rosse. Nei quartieri lo skyline è disegnato dalle montagne. Palazzi di quattro piani stanno in una montagnetta di detriti alta un paio di metri. Il vuoto era l’elemento più importante delle case, tolto il vuoto interno queste macerie di calcestruzzo e cemento armato si sono accartocciate in un cantuccio senza ingombrare troppo. Il morso in fondo al lungo braccio della ruspa dei vigili del fuoco abbatte i muri e, all’interno, incontra solo il vuoto.
Il vuoto negli occhi di chi è rimasto qua, solo, abbandonato, tra orizzonti alti e frastagliati e rovina.

I buoi scappano da anni, ora potete chiudere, definitivamente e per sempre, la stalla o quel poco che ne resta. Qua oggi siamo all’anarchia, chi è sopravvissuto sull’Appennino all’inverno fa, giustamente, il cazzo porco che vuole, tanto non c’è più un cazzo da fare se non sopravvivere. “Resistenza è ricostruire, farlo qua come i nostri nonni settant’anni fa, rimuovere le macerie allora di una guerra oggi di un sisma e ricominciare a vivere, ma non sulla costa, a casa nostra, sui monti, sul cuore delle Marche”. Il 25 aprile, sui monti, quando si parla di lotta e libertà, i miei sindaci fanno il loro dovere e, come da mesi, cercano di farci e farsi forza. Il loro è stato un compito durissimo, quel poco che abbiamo potuto fare ce lo siamo fatti da soli, lo Stato non si è mai visto e mai si vedrà se non per esortarci ad andarcene. Prima con le buone, con decine di autobus pronti dalla prima ora ad organizzare l’esodo. Poi dimenticandoci e lasciandoci dimenticare dal resto del mondo.

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Scorre, giugno, profuma di libertà. Le nuvole rotolano sui campi, al mattino. Sono trascorsi mesi, ma rivivo ancora quel momento, quella mattina, quella scossa, troppo spesso. Quel rumore che cresce, quel ribollire, quel tremore sempre più forte. Poi il boato, il pavimento che salta, le pareti che si aprono. Trascinarsi dal letto al maledetto incrocio dei travi, un figlio di nemmeno un anno tra le braccia, il cemento che piove addosso da ogni dove. La corsa per le scale, la speranza che reggano, contare i secondi che ti restano prima che i pilastri si sbriciolino.
La polvere di gesso che si alza dal suolo al cielo e nasconde gli Appennini che ci hanno tradito per la seconda volta in vent’anni.



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