Dal Tirreno agli Appennini

Tragitti e prospettive tra Riviera dei Cedri, Cilento, Terra dei Fuochi, Valnerina e via Emilia

Pubblicato il 9 Agosto 2015

Con la prospettiva vicinissima, ormai, dell’Evento che ci ha già cambiato la vita, le grandezze che negli ultimi anni abbiamo percorso su e giù e a destra e soprattutto manca per gli emisferi hanno subìto un drastico ridimensionamento. A Novembre nascerà Giona e il premio fuori porta concessoci a metà gravidanza, con la pancia già ingombrante e le temperature insopportabili per chi se la trascina e non solo, la cassa comune in lacrime e nessuna vela bianca all’orizzonte, per questa volta è rimasto confinato in Italia.
Non spenderai mai tanto, al mondo, come in Italia, lo sappiamo bene e le nostre ultime destinazioni l’hanno confermato, per questo abbiamo orientato la bussola, fuori stagione, in località più o meno abbandonate o ignote dove sopravvivere con poco, all’ultimo minuto, senza allontanarci troppo dall’Appennino centrale, ma puntando comunque mare, spiagge, spostamenti brevi e poca avventura. Per una risalita ridicola in confronto alle prossime.

Il Tirreno, giù al Sud, lungo un tratto di litorale di qualche decina di chilometri bagna Calabria, Basilicata e Campania. Scavalcata la spina dorsale della Penisola, corso per il Tevere fino a Roma, attraversata la Ciociaria le montagne, a Nord di Napoli, sbuffano fumo; dal sottosuolo delle alture spoglie bruciate salgono veloci colonne nere nel caldo già irrespirabile di suo, sembra vada a fuoco la terra o brucino le sue interiora. Montagne che poco più a Sud crollano, lo skyline di Sarno è mutilato, il verde delle pareti come morso. Da Eboli in giù il Cilento si scrolla di dosso progressivamente costruzioni industriali e civili, le attività produttive si rarefanno, lungo l’autostrada deserta – la famigerata Salerno-Reggio Calabria, che tutto sommato, almeno nel tratto campano, non ha nulla da invidiare all’A14, anzi – un Autogrill ogni 150 chilometri, dove perplessi turisti tedeschi studiano invano gli scontrini non capacitandosi di aver speso tanto per mangiare così poco. E così male, a giudicare dalle loro tristi insalate già lavate in busta che spero in Italia nemmeno gli universitari a bestia comprino più ma al Nord hanno altre priorità e altre immagini del Bel Paese. Intorno più verde di quanto te ne aspetteresti, piscine e scivoli qua e là risucchiati dalla vegetazione che si riappropria della terra abbandonata, qualche spartitraffico in fiamme, vampate di immondizia e fogne a cielo aperto. Montagne ovunque, il Vesuvio che si allontana alla spalle.

Maratea, Spiaggia Nera

Maratea, Spiaggia Nera

Scendere da Lagonegro al mare è come planare. Non sembrava, dalle mappe, così ripida. Una picchiata per un dislivello importante, disseminato di venditori di fragole sul ciglio della strada, schiaffeggiato da ventate dense di petrolio così tipiche della Lucania da quando Mattei ne fece la Libia d’Italia senza portare lavoro né soldi, in caduta libera su un mare di un grigio bluastro bellissimo, dal fondale nero di sassi vulcanici e un’acqua cristallina limpida, immobile. Tortora è il primo comune calabro del Tirreno. Paese di montagna, vive con il mare, con la sua anonima marina, con il turismo che immagino nei prossimi mesi arriverà. Paese dall’ospitalità e dalle tipicità genuine, cocomeri oblunghi, peperoncini giganti, temperature esagerate, acqua saporita, vocali spalancate, pocce sconfinate. Il lungomare è affollato ma gli chalet chiusi, nessuno sente il bisogno di consumare nulla, per strada manca un’intera generazione tra bambini e vecchi, per ogni casa un cartello fittasi. Dalle alture, nottetempo, salgono livide vampe, boschi e abitazioni vanno a fuoco, fiamme alte fino al cielo a pochi passi dalla costa ma nessuno se ne cura.
Camminare sul nero della sabbia vulcanica è come affondare nel catrame bollente a piedi nudi, nei 40°C che finiscono per rendere desiderabili temperature prossime ai 30 altrimenti insopportabili. Il sole che si tuffa in mare al tramonto risveglia ricordi, richiama volti e rilegge frasi che speravo di aver dimenticato ma scopro sorpreso un sorriso nel prendere atto del fallimento e domani, ma anche dopodomani, mi auguro certe “sensazioni” possa attraversarle anche mio figlio e orientare i suoi orizzonti di conseguenza, perché io non saprò né potrò indicargli la via, ma farò di tutto per insegnargli a trovarla da solo. E sarà bellissimo sbagliare ancora tutto, insieme.

Maratea

Una statua che dal livello del mare sembra davvero alta sorge su un picco scosceso sopra queste acque. Perlopiù ignorata dal grosso dei flussi turistici, unica città lucana sul Tirreno, Maratea vanta sul Corcovado del Sud Italia il Cristo più alto del Paese. Il Cristo Redentore, alto 21 metri, mai inaugurato, spalle al mare, che proprio oggi leggo dai manifesti festeggia 50 anni dalla creazione, è l’emblema di questa regione dimenticata. Escluso qualche trucido partenopeo che cerca di scattarsi sorrisi controluce col suo smartphone, attorno a questo gigante di cemento e marmo non c’è nessuno. Oggi è domenica. In realtà nemmeno in spiaggia c’era troppa gente, anzi; cercassi in tempo reale selfie sui social dal Conero mi sentirei in un altro mondo.
Siamo molto alti sul Tirreno, alle spalle montagne su montagne, la vista spazia lontano. Non una zona industriale, non un centro commerciale, non un campo coperto da pannelli fotovoltaici, non un abuso edilizio. Un po’ il disinteresse dell’imprenditoria, un po’ la sensibilità delle amministrazioni – a Maratea, al balcone del Municipio, assieme al tricolore e all’orrore blustellato sventola il vessillo di Legambiente – hanno preservato la bellezza della natura. Questo Cristo trasmette qualcosa che non decifro, ma la vibrazione è lontana dal male. Appoggio mani e testa al cemento, spero in un tramite, che la mia laicità da troppo ormai vacilla, e so chi affidargli, volesse ascoltarmi nonostante quanto l’abbia ignorato e non per ozio, mea culpa.

Praia a Mare, Isola di Dino

Praia a Mare, Isola di Dino

Lo spazio è poco, nel litorale lucano, e capisco per quanto non approvi l’odioso balzello dei parcheggi “custoditi”. Ma in Calabria, a Praia a Mare, spiaggia libera e terra di nessuno si sprecano fino all’Isola di Dino, e pagare anche qui ogni centimetro di asfalto è doppiamente fastidioso. Tutto è recintato, spiaggia e mare esclusi. I Carabinieri passano, chiedono come va, si allontanano lenti.
Un paesaggio da costa tropicale con pini e abeti al posto delle palme, decine di poggi a picco sul mare, ambienti selvaggi allo stato brado, panorami mozzafiato. Nel nero della notte il Cristo illuminato sembra sospeso nel nulla. «Sei in un Paese meraviglioso», recitano i cartelli di Autostrade per l’Italia tanti chilometri a Nord. Sapessero qua, che meraviglia.

sapri

Sapri, tramonto

Lo so che è una coincidenza e che il bombardamento mediatico degli ultimi anni volle che oggi vedessi proprio questo, ma attraversando il confine Nord, entrando in Campania, spuntano gli ecomostri e la banchina si riempie di immondizia. Il mare a Sapri è verde fogna, l’aria puzza, l’afa ristagna sopra il golfo. Per le vie della “Perla del Cilento” l’umidità, il caos, la sporcizia, le urla mi ricordano certe località costiere non turistiche del Brasile, grattacieli esclusi. Ma la gente, sul lungomare, a differenza di altrove, ancora si parla; ore sulle panchine a far nulla come dieci anni fa, smartphone ridotti al minimo, tanti ragazzi in giro, relazioni umane. Un volume di traffico, in strada, ridicolo, microcriminalità non pervenuta, spettacoli di marionette e un tramonto di fuoco pallido nel quale, perdendomi, mi sento bene, interiorizzato l’umore meridionale e abbandonata la zavorra calamitata della mia misera arida terra.
Risalendo il Cilento mi chiedo cosa spinga la gente ad arrivare in superstrada, percorrendo chissà quanti chilometri, per gettare spazzatura – e non residui organici, ma veri e propri beni durevoli esausti che uno deve caricarsi di peso da casa fin qua – nelle piazzole di sosta. Azzardo varie risposte tutte incondivisibili, lungo la strada che attraversa progetti annunciati incompiuti cofinanziati dall’UE, paesi che sembrano usciti dalla penna di Franco Arminio e temperature che satellano attorno ai 40°C. Caserta brucia selvaggia in una nube di calore. La gente, per strada, nemmeno suda; le ragazze indossano jeans e stivali. Africani seduti su ogni marciapiede, gli uffici della CGIL specificano in vetrina che non si occupano di immigrazione. Doppi tagli spinti, cerchi da 20cm agli orecchi e ciuffi alti fino al cielo nelle vie della movida ora squattate ora luccicanti. Caserta, Residenza reale
Alla Reggia i dipendenti della Soprintendenza alle 18 meno un minuto fuggono e sprangano le porte, nelle ridondanti lussuose sale reali quattro custodi per stanza si annoiano sventolandosi stanchi. Il parco ha una prospettiva rovente e infinita. Carpe giganti e zanzare inclementi, gruppi equestri mozzafiato sotto un sole che rende questa meraviglia, patrimonio UNESCO, quasi surreale.

Reggia di Caserta

Caserta, Parco della Residenza reale

La residenza reale più grande del mondo era una tappa che non volevo perdermi e l’intensità è stata qualcosa di alto, penso oggi, nell’aver camminato lungo tutto quel parco fino alla cascata finale. Posso però solo immaginare, con Giona che sgambetta e fa capriole in quel pancione, quanto siano stati lunghi il doppio e caldi il triplo quei tre chilometri per te al mio fianco.

Quindi ancora Appennini, l’alta spina dorsale dell’Italia, fino a Narni, Terni, Orvieto; e ancora più su verso il Mugello, nella valle del Senio, poi oltre la linea Gotica, lungo la via Emilia. Paesaggi che cambiano lenti, alture che scorrono nervose e frastagliate attorno alle valli, ora immerse tra le cime, ora lontane, là sotto. Due finesettimana medievali di solitudine tra tanta gente in festa, di meditazione e scrittura, di temperature che solo il cuore d’acciaio d’Italia più lontano da Alpi e mari può registrare, là dove il calore sale inarrestabile dalle viscere della terra; giorni di estenuante attesa e insaziabile assenza a tanti silenziosi chilometri dalla mia famiglia, che dopo tanti anni posso chiamare col suo nome, che per quanto possa idealizzare una sospirata indipendenza non so e non voglio starvi più lontano.



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