Albania. Dove volano le aquile

Il più lontano dei vicini: reportage dalla 21ma regione italiana

Pubblicato il 3 Settembre 2014

Più dei 70 km di Adriatico, tra noi e loro sono stati l’isolamento politico di mezzo secolo imposto da un dittatore di secondo se non terzo piano, la paura e i pregiudizi aggrappati ai cargo carichi di migranti di inizio anni Novanta e la nostra ignoranza a rendere il Paese delle Aquile un buco nero nelle sezioni turistiche degli scaffali delle librerie tricolori. La risposta che chi, più schifato che scettico, esclama “Albaniaaa?!” può trovare da solo interrogando i motori di ricerca, ammesso che lo faccia, farà riferimento a natura, arte, avventura; certo, c’è anche questo aldilà del canale d’Otranto, ma un italiano entra in Albania con altre aspettative e ne esce con altre esperienze.
Salpare dal porto dorico il 15 agosto, lasciandosi alle spalle il deserto dell’entroterra rovente abbandonato, e guardarsi attorno al terminal imbarchi è già un buon abstract: lunghe code ai check-in per Grecia e Croazia, umanità attrezzata alla vera vacanza, variopinta gioventù ansiosa di mordere il divertimento estivo. Poche facce inespressive, balcaniche, scorrono in silenzio agli sportelli dell’Adria Ferries, la cenerentola napoletana delle compagnie che solcano i mari a Est dello Stivale, dirette alla casa da cui decenni fa scapparono. Stavolta coi passaporti e per le ferie. Un viaggio di venti ore passaggio ponte dove abbandonare ogni dignità è lecito, tra mozzi indocinesi e caucasici che all’alba cercano il Levante per pregare, gente stesa a terra in ogni passaggio utile sui ponti, albanesi con un’infinita voglia di parlare mentre i loro bambini giocano a calcio a piedi scalzi e neri nei corridoi.
DurazzoCompagni di traversata mi fanno presente già in acque territoriali croate che 1.400 aziende italiane producono là camicie con etichetta Made in Italy, che un operaio non guadagna più di 300 euro al mese, che i diritti sindacali non esistono, che i call center di Telecom e Sky nemmeno ti avvisano più quando deviano la tua chiamata a Tirana, che l’italiano si insegna a scuola ai bambini in vista della migrazione obbligatoria e che un italiano in vacanza presso la Terra delle Aquile gonfia d’orgoglio ogni albanese e il suo forte nazionalismo. Li avverto che, se Croazia, Grecia e addirittura Montenegro sono da anni destinazioni elette per un agosto low cost, non ho molti dubbi su quale sarà la prossima tendenza turistica alternativa alla più cara costa adriatica.

DurazzoLe alte vette delle Alpi albanesi bucano le nuvole a prua: Durazzo scintilla sotto il sole. Palazzi in costruzione riflessi sul mare, una lunga spiaggia troppo stretta sovraccarica di ombrelloni più o meno malandati, i motorini e le mercedes, i carretti dei rom e i torsi nudi, le insegne in italiano e la spazzatura; gli autolavaggi e le mille bancarelle, i vecchi con le bilance chiedono spicci per pesarti, i cavi scoperti e le baracche e i mendicanti. Alberghi ultramoderni tutti neon e palme e giochi d’acqua direttamente sulla spiaggia e palazzi in centro dagli ultimi piani in costruzione sopra primi piani di troppi anni prima già mezzi cadenti. Un appartamento fronte mare costa la metà che sull’altra sponda dell’Adriatico. Parlare in italiano attira troppe attenzioni: gli autoctoni fanno a gara ad attaccare bottone, immagini per vendere o proporre o almeno truffarti in qualche modo. Nulla. Solo chiacchiere. Farlo nella tua lingua nella loro casa li esalta, in qualche nemmeno troppo perversa misura fieri che – mutatis mutandis, sebbene per poco e per diversi casi – le parti si siano invertite.
Durazzo è il porto, la spiaggia e l’interfaccia della Capitale. Le due zone industriali si toccano, le strade si allargano e le aquile bicefale alle rotatorie danno il benvenuto a Tirana. TiranaCittà moderna e in via di sviluppo allo stesso tempo, la meno albanese d’Albania, dicono. Più in divenire che in costruzione, al contrario di Durazzo e della sua sconfinata distesa di edifici incompiuti, o nuovi ma vuoti, o realizzati a metà con armature in vista in attesa di futuri sviluppi. Tirana. Un unico continuo suono di clacson nel traffico impazzito di Mercedes anni 80, BMW e scintillanti potenti suv. Città europea, socialista, fascista, ottomana, greca. Chiese e moschee a pochi metri tra loro chiamano inutilmente, ognuna a modo suo, fedeli disinteressati a rispondere. La polizia annoiata fa le parole crociate all’ombra, gli spazzini di sera spostano i rifiuti dai marciapiedi ai tombini o alle buche, selve di cavi a ogni altezza, illuminazione pubblica disinvolta e variopinta. Nei bar solo caffè, acqua, birra e raki. Meno affittasi e vendesi che da noi. Gli ampi boulevards del centro disegnano un fascio littorio, al quartiere cool del Blloku sgargianti club da riviera con costi quasi italiani, ragazze vestite Zara e Ferrari parcheggiate, lungo i vialetti alimentari made in Italy e lungo i vialoni artigianato made in Marche a prezzi impronunciabili che speriamo i russi non scoprano mai; ma per l’embargo all’artigianato che ci siamo meritati – e speriamo non si vada oltre ma l’arroganza che ci muove mi fa disperare – dopo i tragici giochetti NATO e dei suoi fantocci nazisti russofobi in Ucraina, immagino non ci metteranno molto a scoprire se ancora vogliono prodotti di livello aggirando l’Ue e le sue sanzioni. Permettersi di lasciare mance, evitare i supermercati zeppi di prodotti italiani dove è più conveniente il ristorante, dove un caffè costa 30 centesimi, una grappa 50 centesimi e una cena di pesce 4 euro, per capirsi.

Tirana

Intorno alla statua dell’eroe nazionale Gjergj Kastrioti Skënderbeu non ci sono bambini laceri a chiedere elemosina né tracce di miseria alcuna, spuntano nuovi grattacieli dalle forme innovative e le facciate dei palazzi sono state dipinte dietro l’idea del sindaco pittore Edi Rama – oggi Primo Ministro – di lasciar sfogare la creatività dei suoi concittadini sul cemento del socialismo reale. Dopo vent’anni gli emigrati tornano a casa, l’America cercata in Italia è più rintracciabile qua che nelle nostre sfiancate città, le loro rimesse per anni hanno finanziato un boom – e un crack – che dà a queste terre un aspetto di paese con crescita a doppia cifra. Si moltiplicano le autostrade – le mucche però ancora le attraversano – e spuntano quartieri residenziali ovunque ci sia terra, anche dove quella terra meriterebbe altro. Il contrasto ricchezza/povertà distintivo dei paesi in via di sviluppo, che una volta – prima che ci accorgessimmo di essere i primi a farne parte – si chiamavano terzo mondo, non si vede in Albania. O si vede molto meno che in Italia: poche banche (Intesa e Veneto Banka, soprattutto), poche auto di alta gamma (ma tante Mercedes: “Con queste strade servono motori potenti e carrozzerie robuste”, mi dissero prima che lo capissi da me, il perché dell’assenza di vetture Fiat), edifici di lusso solo quelli lasciati dal regime (e su molti cresce vegetazione), dove esiste la povertà è dignitosa, nessuna disperazione per strada né microcriminalità evidente.
I 6×3 urlano ogni poco, accostando l’aquila a due teste al cerchio stellato, che da un paio di mesi l’Albania è candidato ufficiale all’ingresso nell’Ue, che in 300 giorni troppo c’è da fare: la lotta del governo albanese alla corruzione e al crimine organizzato nonché l’impegno per riformare il sistema giudiziario hanno convinto l’unanimità dell’esecutivo di Bruxelles. Otto albanesi su dieci, dicono le statistiche, si dimostrano favorevoli a questa integrazione. TiranaFondi per il pre-ingresso stanno finanziando discutibili progetti già da un pezzo, nella Capitale e immagino altrove: la Piramide eretta da Enver Hoxha – che ne immaginava il suo mausoleo ma dopo di lui è stata prima discoteca, poi emittente televisiva, infine monumento al degrado e all’abbandono di un popolo disinteressato al suo passato e tanto ignorante della sua memoria storica da nemmeno maledirla – ospita una mediamente triste mostra di arte contemporanea dove campeggiano i loghi della Regione Veneto e della Regione Puglia, oltre a strani programmi di finanziamento. “Sappiate che l’Ue non è stata creata per voi né per noi – sottolineo ogni volta che l’occasione me lo permette – e che sarà la vostra rovina”. Lo sanno. Attendono più ingenui che rassegnati la loro fine. “Peggio di così: siamo un milione e mezzo, un milione politici e mezzo milione criminali”, scherzano, non so fino a che punto. Molti hanno vissuto il Comunismo, poi l’esodo, oggi sognano di tornare a casa – dove ne hanno comprate quasi due con i risparmi degli stipendi italiani – ma la loro casa, dice il linguaggio dei figli, è l’Italia. Accontentarsi delle ferie non è la stessa cosa.
I ragazzini in spiaggia giocano parlando in italiano mentre i loro padri, tra loro, in albanese, finché durerà la vacanza. Il caffè è italiano, la macchina per farlo pure, chi te lo fa ha un accento ora romagnolo ora milanese. L’ambasciata italiana – con gli uffici di Veneto e Puglia – occupa il palazzo della cultura nella piazza principale della città, come se l’Albania fosse la 21ma nostra regione; non credo un’altra capitale al mondo lascerebbe il suo palazzo per eccellenza nella piazza più importante alla rappresentanza di un altro stato.Tirana Dal centro i bunker – Piramide e memoriale esclusi – sono scomparsi. Nei dintorni un po’ meno. Nelle strade fuori città molto meno. Diroccati, convertiti, nascosti dalla vegetazione, sulle prime strappano un sorriso per la paranoia di Hoxha che l’avremmo attaccato: un bunker a famiglia, ce ne sarà mezzo milione in giro per strade e montagne e foreste e spiagge e un po’ ovunque. Bunker monoposto in cemento armato spacciati per rifugi antinucleari, rimasti intoccati dalla loro apposizione un po’ per disinteresse, un po’ per rispetto, un po’ perché non si sa mai e un bunker potrebbe sempre servire; durante il conflitto in Kosovo qualche bomba sconfinò e ne distrusse un paio come fossero di cartone. Non erano così solidi. Li hanno fatti a pezzi per estrarne e venderne l’acciaio, nei luoghi più accessibili; in montagna troppi, più o meno intatti, ne sono rimasti. In ogni caso, entrarci dentro toglie il sorriso. Non sono mai serviti, vero, ma trovarsi in un buco di cemento con un portamitra e una feritoia lascia una sensazione decisamente spiacevole che non saprei descrivere in altro modo che con angoscia.

Per loro la situazione delle infrastrutture ha fatto passi da gigante. Non so com’era prima, ma se non si considera il traffico – allo stato brado: Roma sembra Bolzano in confronto a Tirana -, tutto sommato, lungo la costa ci si sposta, in auto. Qua e là compare anche qualche chilometro di autostrada e superstrada, sebbene senza svincoli (si esce da rotonde, nelle quali sembra che il sistema di precedenze sia invertito rispetto al nostro) e con bestiame di ogni sorta in transito. Affrontando l’entroterra, in un paese quasi completamente montagnoso, la situazione cambia. Peggiora, terribilmente. Albania
Scompare l’asfalto seguito dalla segnaletica, si aprono crateri e voragini sullo sterrato, la carreggiata si stringe e si moltiplicano i muli e i carretti trainati, sotto le ombre ai margini della strada vecchi e bambini vendono miele, frutta, verdure. Autobotti spargono acqua per limitare la polvere, fa lo stesso chi vive nei paesetti meno abbandonati di quanto ti aspetteresti a contare i pupazzi contro il malocchio appesi alle armature di case incompiute in mezzo al nulla, lungo il tragitto che da Durazzo attraversa Lushnjë per arrampicarsi a Berat. BeratPatrimonio Unesco, la città dalle mille finestre parla un po’ più inglese, conosce un certo turismo da qualche anno, ma gli italiani li adorano come altrove: detto con la più amara sincerità, non meritiamo la gentilezza di gente che si fa in quattro per te, che vuole farti sentire meglio che a casa tua anche se le vostre lingue non si capiscono, che ha dei riti di accoglienza così ferrei da sentirsi a disagio quando non riesce a portarli a termine. La seconda domanda che ti pone un albanese nella sua terra è “Come hai trovato gli albanesi”. Non l’Albania, gli albanesi. Vogliono fare bella figura. Con noi, che li abbiamo colonizzati, poi invasi, poi ignorati per decenni, poi stipati negli stadi, poi rimpatriati, poi sfruttati quindi additati indiscriminatamente come delinquenti e infine schiavizzati con aziende tricolori, magari anche fallite in patria, al settimo cielo all’idea di ricostruire impuniti un’economia feudale a due passi da casa.
C’è un’atmosfera incantata tra castello e cittadella, a Berat. Tanto silenzio. Un elegante lungofiume, in centro, senza Mc Donald’s né Starbucks; nemmeno altrove, a dirla tutta, ne ho visti: Kolonat è il fast food albanese kebabbaro e “costoso”, il caffè è espresso italiano, si beve al tavolino per ore e le caffetterie americane con i bicchieroni di cartone da asporto non avrebbero senso per chi intorno alla tazzina fa salotto. Pochi centesimi lasciati ai mendicanti li fanno prostrare dieci volte dopo il tuo passaggio; quattro poliziotti almeno presidiano il traffico di una deviazione stradale, la gente ti saluta dal bar sbracciandosi già dall’altra sponda del fiume per invitarti a prendere un caffè. Quindi a trascorrere la mattinata a tavolino. Le moschee e le chiese, chiuse o abbattute da Enver Hoxha, hanno ritrovato la voce e qualche fedele in più nell’entroterra si vede. “Mi chiederai cosa mi mancava a Berat, quando tornerai”, scommetteva Arben, sui nostri Appennini, prima della partenza; dei collegamenti degni di un paese moderno potrei anche farne a meno, ma a patto che di moderno non ci siano nemmeno le conseguenze: non potete far correre gli X5 assieme ai muli, non potete edificare un università sul modello del Campidoglio di Washington e non avere l’illuminazione pubblica per arrivarci, non potete vantare moschee ottomane e tenerle chiuse, accese di led natalizi, in agosto. Berat
Nel sacrario ai caduti in guerra una distesa bianca di lapidi e stelle rosse, molti i “partizan” senza identità e altrettanti i nomi che sembrano italiani balcanizzati. Dopo l’8 Settembre le armate italiane in Albania ricevettero dal Comando Supremo l’ordine raggiungere la costa in vista di un reimbarco verso la patria, finendo per scontrarsi con le unità tedesche che sbarravano loro la strada. Quattro delle sei divisioni furono catturate, due riuscirono a disperdersi. Quasi duecento militari italiani si schierarono con il fronte di liberazione nazionale albanese e formarono il Battaglione “Antonio Gramsci”, che difese proprio Berat dall’attacco nazista. In quel combattimento il Battaglione uscì praticamente annientato, e tutti gli italiani fatti prigionieri dai tedeschi vennero fucilati. Qualche vecchietta lascia dei fiori sul marmo. Io il mio omaggio a patrioti combattenti morti per difendere una patria nemmeno loro, caduti davvero per un’idea, una libertà che non aveva confini né passaporti.

L’inferno stradale che conduce alle coste ioniche attraversa le mulattiere e le raffinerie di Fier, prima di rivedere il mare a Valona, le mucche tra gli ombrelloni, cavalli che brucano immondizia e un degrado ambientale frutto di un abusivismo ecomafioso difficile da capire e impossibile da digerire. Edi Rama sta iniziando gli abbattimenti, ma con tanta proliferazione criminale è poco più di un gesto simbolico, il suo. Corre la strada quindi ad alta quota inerpicandosi in terribili tornanti sopra i mille metri del passo di Llogara per guadagnare la lunga linea costiera che si stringe fino all’isola di Corfù e alla Grecia. Le “famose” località balneari albanesi, in un crescendo di greco e movida fino alla Rimini del Sud, Saranda. In auto Radio Tirana trasmette Adriano Celentano, salta su Radio Norba, 105, R101. Radio Maria è tradotta.
DhermiSembra reggersi in piedi per miracolo, Dhërmi. A picco sul blu profondo dello Ionio, cupole delle chiese azzurre, i solchi sugli sterrati ingigantiti dal continuo scorrere dell’acqua gettata contro la polvere che tra l’altro domina, acqua o non acqua. Sentieri adatti appena ai muli o al massimo a Lada Niva intasati da Mercedes e BMW con targa greca uno su due e dalle loro urla. L’abilità alla guida albanese va però riconosciuta: sanno manovrare mezzi ingombranti in spazi angusti, sanno far salire il contachilometri su viottoli di montagna da vertigine, sanno gestire l’ingestibile traffico dei paesetti con una sola via di accesso e uscita stretta tra case a pochi metri l’una dall’altra dove passano dai tir ai camper alle barche sui carrelli. Qua “italiano” è ancora sinonimo di “fascista”: non so se perché ignorano il ventennio berlusconiano, o non hanno capito per 46 anni dov’era il maggior Partito Comunista d’Occidente, o solo perché non ci hanno ancora perdonato quell’occupazione del 1939 da un lato e quella campagna per “spezzare le reni” dall’altro.
DhermiIn spiaggia greci e albanesi eleggono l’italiano a lingua franca per parlare tra loro, discoteche a dieci metri dalla riva lanciano filmati trucidissimi di musica popolare da youtube. Le moto d’acqua fanno impazzire ragazzotti dai fisici scolpiti che sfrecciano a tutte le ore; belle ragazze more i cui tratti somatici non sapresti identificare con un’area geografica diversa da una generica “mediterranea”. A monte discariche spontanee o abusive stordiscono ogni tot chilometri coi loro fumi; al loro interno accampamenti dei rom che differenziano i rifiuti, bambini che giocano nell’immondizia, camion che caricano e scaricano. Il mare sembra una piscina, acqua trasparente a metri e metri di profondità. Ambulanti in spiaggia vendono frutta e giornali. Ελλάς scritto sui muri a fronteggiare le invocazioni alla Shqipëria etnike.
Qualche bunker sulle alture controlla l’orizzonte. Corfù illumina il nero del mar Ionio. Poche luci sulle montagne brulle, strette sulla costa, separano il cielo dal mare. L’Italia di fronte, così vicina, così lontana.

15-20 Agosto 2013
_continua
parte II →



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