Albania. Dove volano le Aquile

Il più lontano dei vicini: reportage dalla 21ma regione italiana (pt. II)

Pubblicato il 16 Settembre 2014

Si arrampicano troppo stretti i tornanti su e giù per le onnipresenti montagne puntellate da lapidi. Lungo la strada a picco sul blu profondo delle Ionio, direzione Sud-confine greco, bestiame abbandonato, rifiuti abbandonati, ecomostri abbandonati, terrazzamenti carichi di olivi imposti da Hoxha ai “volontari” abbandonati. saranda
Saranda scoppia all’improvviso dietro l’ultima altura brulla prima che Corfù chiuda l’orizzonte. Località turistica con tutti i suoi orrori, grattacieli, hotel, fari, un’indigestione di luci. Di notevole vanta le dimensioni dei televisori nei campi rom di lamiera e le rovine bizantine che s’allungano fino in acqua a fare ombra sui bagnanti. Una spiaggia misera, qualche ligure a passeggio lamenta di sentirsi a casa, le proporzioni del xhiro (leggasi “giro”, traducasi lo stesso; indica la gente a spasso di sera) sono abbondantemente europee, bandiere blu stellate campeggiano avvoltoie ovunque, famiglie kosovare escono in otto dai Mercedes. Non una canna da pesca, non un peschereccio, qualche barca a remi stende le reti sul far della sera. La Grecia a portata di vista, una manciata di chilometri da qui, ma gli albanesi indossano magliette dell’Italia e i negozi di souvenir vendono bandiere tricolori. Quando, presto, la prossima Grecia saremo noi spero non vendano quelle tedesche. saranda
“Perché sei venuto in Albania”?, domandano spesso un po’ sorpresi gli autoctoni. Curiosità, amici oltre il canale d’Otranto, vicinanza e scarso budget le risposte più semplici. A qualcuno ho provato a dire di più, accennando paesi coi cui nomi sono cresciuto e racconti di guerra di quand’ero bambino. sarandaA Durazzo, sul lungomare, un monumento partigiano ricorda la vana Resistenza albanese all’invasione fascista del 1939. Un promemoria per ogni volta che il termine invasione è stato avvicinato all’ondata migratoria del 1991. Comunque, in quel 1939, tra i battaglioni italiani sbarcati sulla costa albanese c’era il soldato Rino Falistocco, mio nonno. Sulla strada per “Spezzare le reni alla Grecia”, a sessant’anni di distanza, ancora non dimenticava Argirocastro. “Tuttu sabbio’ e scatafóssi” erano quelle montagne. Nella Fortezza d’argento (significa questo, Argirocastro, mescolando lingue e culture, visto il luccicare della pietra bianca con cui è edificata la città vecchia) fu difficile l’ingresso delle truppe italiane. Mai quanto la successiva conquista della Grecia, dimostratasi sul campo – sui monti – molto più resistente di quanto il Duce si aspettasse. O forse eravamo noi, a non essere in grado di sostenere la guerra imperialista che un regime più folkloristico che belligerante sbandierava per darsi un contegno. Quella volta, come altre, vennero i tedeschi a tirarci fuori dai guai, dopo che da Gioannina – pochi chilometri da Argirocastro, sul fronte greco – le truppe elleniche ci respinsero tanto indietro da riconquistare la Fortezza argentata. Siamo stati il fardello teutonico per tutta la guerra, il mondo in qualche maniera dovrebbe essere grato all’Italia per tutte le risorse fatte spendere ai tedeschi nel conflitto per salvarci quindi distratte da altri fronti.
L’8 settembre “‘llu zuzzu de Badoglio” abbandonò i soldati a se stessi. Rino e i sopravvissuti che presidiavano i confini albanesi caddero in mano tedesca, fatti prigionieri da un alleato da un giorno all’altro diventato nemico. Liberato dall’Armata Rossa nell’aprile del 1945, a piedi e con mezzi di fortuna riuscì a tornare a casa solo cinque mesi dopo. Dov’era casa sua cinque anni prima trovò ruderi bruciati e una lapide con troppi nomi, tra cui quelli del padre e del fratello. Ma questa è un’altra storia. argirocastro
Argirocastro splende sotto il sole a picco, sul versante scosceso di un gruppo montuoso finalmente rilassatosi verso una vallata spoglia. Al castello un museo d’armi abbandonate in loco dai conflitti, nei dintorni una pioggia di bunker. I minibus roventi dai vetri infranti trasportano promiscuamente turisti e pezzi di ricambio Mercedes. Fa parte dei centri mondiali protetti dall’UNESCO, ma sulla sponda opposta dell’Adriatico – per noi abituati ad altre misure – quel riconoscimento marca qualcosa di dimensionalmente inferiore ai nostri standard.

Di Ksamil me ne avevano parlato già a Tirana. Tre isolotti raggiungibili a nuoto l’un l’altro in uno specchio di mar Ionio caraibico. Due passi da Saranda, un passo dalla riserva naturale di Butrinto, dalla Grecia credo anche meno, Corfù sembra raggiungibile in tre bracciate. Il confine immagino sia liquido in queste acque, ma non immagino cosa gli albanesi di questa costa potevano sentire guardando l’orizzonte greco così a portata di mano negli anni in cui le mani dovevano restare in Terra delle Aquile. Ma non è per la Grecia che sono sceso fin qui e a Saranda un italiano non si sente a suo agio come al Nord. Tempo di riguadagnare la costa adriatica.
valonaRipercorrere i valichi in direzione opposta a quella di qualche giorno prima, senza l’adrenalina dell’arrivo né la fretta di rivedere la linea costiera che da adriatica si fa ionica dopo l’alto promontorio è ancora più spaventoso. Perché la seconda volta lo sai cos’è quella strada. “Visto che montagna ho scalato”? mi hai detto fiera di te mentre, ormai alle spalle, il gigante sconfitto non mi intimoriva quasi più. Io non ce l’avrei fatta, lo sai. Era una battuta, ma ci ho letto una metafora, e il mio sguardo è cambiato. Perché dopo tre anni, assieme, sappiamo affrontarle le paure. Nemmeno questo, da solo, ce l’avrei fatta a fare.
Valona ha una bellissima baia, finché non arrivi a Valona. Ne ho visti di litorali dimenticati da Dio e uomini, ma questo se la batte con i peggiori. I bambini giocano con bottiglie rotte e sacchetti come fossero paletta e secchiello, in spiaggia, tra rovine, scheletri di costruzioni, bunker, baraccopoli e vecchie Mercedes che caricano reti da pesca direttamente sull’arenile. valonaIn cima alla montagna che copre la città il nome cubitale di Enver Hoxha ancora non è stato del tutto rimosso. Lontano dal malandato litorale, a partire dal porto – per quanto semi dismesso, questo è il più vicino alla Puglia. Fu un caso, ma il destino volle che il primo cargo di albanesi in fuga, quell’8 agosto in arrivo disperato a Bari, si chiamasse come questa città – il disarmante centro moderno, che di storico ha davvero poco. Sembra costruita da dieci anni, Valona. Solo immensi nuovi palazzi e alberghi e cliniche dentali (per turisti, a giudicare le bocche di chi vive qua). L’ora del xhiro quasi impraticabile, i prezzi nei locali prossimi a quelli italiani (per bevute italiane), rotatorie inaffrontabili e negozi aperti fino a tardi. Una crescita continua che impone una riflessione su quanto esploda un’economia senza patti di stabilità, senza preoccupazioni all’aumentare del debito pubblico (comunque ancora metà del nostro), con moneta sovrana e spesa a deficit per i suoi cittadini. Ma per la prima volta, guardandomi attorno, in questo squallore, anche solo per un attimo di cui immediatamente mi pento sento quasi la mancanza della facciata di regole almeno infrastrutturali, paesaggistiche, sociosanitarie, storiche e urbanistiche cui il vecchio continente sotto troika – per quanto non a mio vantaggio – mi ha abituato.

La polvere, a ogni altezza, sembra un elemento da cui l’aria è indissolubile. Città, montagna, spiaggia, non fa differenza. Tornare a Durazzo con l’ottica di lasciare l’Albania, per imbarcarsi con venti ore di mare dinnanzi, trasforma il punto di vista sulla città. Tira fuori quello che in ogni arrivo ignori tutto proteso verso altre destinazioni. durazzo
Durazzo è già una città europea, e lo sa. Nuove strade, nuovi quartieri, nuovi palazzi, nuove gallerie, l’asfissiante boom a ogni angolo a sottolineare con mano pesante l’avvenuto passaggio da agricoltura a industria, da scarsità a benessere, da bottega a centro commerciale. Nuove moschee accanto a nuove chiese ortodosse di fronte a edifici fascisti all’ombra di grattacieli che sovrastano strutture socialiste, nella stessa piazza. “Di Durazzo non hai visto nulla”, mi rimproverano compagni di viaggio tra l’altro quasi compaesani che ricreano il bar e le ore attorno al tavolino anche sui ponti della bagnarola dell’Adria Ferries. “La prossima volta vieni con noi, parliamo italiano, giriamo su BMW X5, ti portiamo nei luoghi giusti, in discoteca, a divertirti, a mangiare bene, con belle ragazze”. Ogni elemento della loro frase ha il suo perché e a ogni perché darei una risposta, ma ormai non aggiungerebbe né toglierebbe all’esperienza che si avvia a conclusione. Se mai tornerò, prima che per l’Albania sia troppo tardi, magari lo farò con qualcuno del posto. Ma in un viaggio ho scoperto – non da oggi – che, oltre destinazione e contesto, per costruire senso servono gli occhi dove riflettersi completa ogni sguardo. E una mano da stringere quando il tramonto colora Durazzo di rosso poi rosa poi nero mentre la nave si lascia il suo porto alle spalle. A salutarci nel buio un faro che si fa sempre più lontano.
Isolotti della Croazia bucano il blu dell’Adriatico all’alba, qualche delfino si rincorre attorno alla nave. I cargo si moltiplicano, le acque solcate da sempre più mezzi, verso Nord. Una massa appena più scura dell’orizzonte prende forma, lenta si scrolla la foschia di dosso. Poi, silenzioso e immobile, il monte Conero.

21-26 Agosto 2013
fine
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albaniaBibliografia consigliata:
si vanta di essere l’unica in italiano (in tedesco ne ho viste decine in mano a tecnicissimi signori biondi e pallidi) e probabilmente, per ora, non mente: Tirana e Albania, guida fresca di stampa (2014) scritta da Benko Gjata e Francesco Vietti per Morellini Editore, si muove bene tra tempo e spazio e lo fa con occhi italiani e cultura albanese.
Informazioni sulla situazione sociopolitica in questa fase di transizione del Paese sono disponibili aggiornate e attendibili su East Journal, Osservatorio Balcani Caucaso e Rassegna Est; poi merita un passaggio il sito del Centro di Cultura Albanese, gestito da albanesi italiani.
Tra i film, obbligatori Lamerica, tre David di Donatello, di Gianni Amelio (1994) e La nave dolce, documentario sulla traversata della Vlora, di Daniele Vicari (2012).
Infine Scrittura cuneiforme di Kader Abdolah e Il libro dei sussurri di Vosganian Varujan, che con l’Albania c’entrano poco ma ha voluto la sorte fossero loro a farmi compagnia in Terra delle Aquile.



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